Sapere che cosa vuole realmente l’altro da noi, da se stesso o dalla vita non è un dato che si può ottenere con poche domande.
Sapere cosa realmente cerca la persona che ci sta accanto, di cosa davvero ha bisogno, necessita di un lungo percorso di conoscenza reciproca.
Sapere cosa si vuole da se stessi è un compito altrettanto difficile.
Ci vuole tempo e coraggio per entrare nei meandri della propria anima, per scavare dentro di sé e abituarsi all’oscurità che spesso si incontra, proprio come fanno gli occhi quando entriamo in una stanza buia.
Occorre avere il coraggio di fare piccoli passi senza sapere bene cosa si incontrerà, accettando il rischio della sorpresa e dell’incognita.
Cosa vuoi davvero? E’ una domanda che si rivolge inevitabilmente alla propria anima, una domanda che spesso vaga nella mente in attesa di ancorarsi a un’immagine o a una emozione, che ci permette lentamente di comprendere, come una lieve luce che si intravede in lontananza e che ci fa strada quando non sappiamo più dove andare.
Questa domanda tuttavia porta spesso ad avvicinare e contattare immagini e pensieri che albergano nella nostra mente e offuscano la nostra vista. Occorre saper fare le domande giuste, ma soprattutto imparare a guardare, ad ascoltare.
Cosa cerchiamo quando ascoltiamo gli altri? Spesso abbiamo delle idee preconcette e nella nostra mente costruiamo previsioni rispetto a ciò che pensiamo di dover ascoltare. Abbiamo delle aspettative, e difficilmente ci apriamo davvero all’ascolto.
Quando poi si tratta dei figli, le aspettative aumentano.
Quando pensiamo di entrare in comunicazione con loro, crediamo di dover parlare, di dover riflettere, di dover pensare, di dover rispondere, e mentre il bambino parla la nostra mente lavora febbrilmente per preparare una risposta.
Talvolta siamo così ansiosi di rispondere che addirittura lo interrompiamo.
Ci dimentichiamo che dobbiamo, principalmente, e prima di ogni altra cosa, ASCOLTARE, col puro e semplice gusto di capire, di ricevere.
Ascoltare con la mente limpida e pulita, come fosse lavata da un’acqua di sorgente capace di eliminare scorie e sabbia, pensieri nascosti, giudizi, o pre-giudizi, che impediscono di capire davvero. Ascoltare significa saper fare il vuoto dentro di sé. Avvicinarsi alla realtà dell’altro, col desiderio e la disponibilità a di capirlo e conoscerlo davvero. Permettere a se stessi e a chi ci sta di fronte di farsi conoscere e di conoscersi, con il desiderio di rischiare, perché entrare in rapporto vero con qualcuno è sempre un’avventura. Occorre avere il coraggio di farsi coinvolgere, di lasciarsi cambiare, trasformare, mettersi in gioco. Di lasciarsi vedere, di esibire la propria fragilità e la propria incompiutezza.
Questo vale anche per i figli. Quando siamo con loro, troppo spesso non ci soffermiamo a osservarli e ascoltarli davvero. Eppure hanno così tanto bisogno di noi e del nostro ascolto. Poi figli si adattano, si adeguano al nostro silenzio, alla nostra distrazione e ad un certo punto si abituano, non ci chiedono più, non parlano più.
Ma quanto farebbe bene, a noi e a loro, ascoltare e prendere sul serio quello che nostro figlio ci dice. Ascoltare senza pensare di dover correggere o aggiustare, ma con il puro gusto di sapere. Come se dovessimo assaporare un frutto che non conosciamo e di cui non abbiamo idea. Dolce, morbido, lievemente acidulo alla fine. O forse dal sapore forte e ingombrante, aspro come il limone. Non lo sapremo finché non decideremo di rischiare, di metterlo nelle nostre labbra, lasciarlo un po’ nella lingua e muoverlo nella bocca gustandone il sapore.
Solitamente quando ascoltiamo pensiamo di farlo con assoluta apertura, ma troppo spesso inganniamo noi stessi. Molte volte infatti stiamo ascoltando il nostro dialogo interno, le parole che ci diciamo nella nostra mente incessantemente. Ascoltiamo, o pensiamo di farlo, ma siamo più concentrati a pensare alla nostra risposta, alle nostre opinioni, alle nostre idee. Così finiamo per replicare prima ancora di aver ascoltato, o senza aver capito davvero quello che l’altro sta cercando di comunicarci. Spesso siamo interessati alle nostre emozioni e non a quelle dell’altro, alla nostra paura, alla nostra rabbia, alla nostra ansia, al nostro desiderio di risolvere subito e senza dover pensare, o penare.
Per ascoltare davvero occorre che ci mettiamo all’altezza di ci sta comunicando. Quante volte invece pensiamo di essere al di sopra dei nostri figli: ci sentiamo più saggi, più intelligenti, più maturi. Pensiamo di avere da dire e pensiamo che l’altro non ci possa dire niente di importante, niente di così fondamentale. In fondo, cosa potrà mai comunicarci? È solo un bambino. Così, spesso prima che abbia finito di parlare, diamo risposte banali o semplicistiche pensando che lui o lei non possano capire niente di più, o perché l’ansia ci ha travolto e abbiamo dovuto per forza dire quello che avevamo in mente in quel momento. E dimentichiamo il rispetto, l’apertura, la sacralità dell’altro. La capacità di aprirci, di entrare in relazione vera e profonda, rimane ancorata in un angolo della nostra anima, incapace di venir fuori, di farsi conoscere persino da noi stessi.
Restituiamo valore ai nostri figli: li vediamo piccoli, fragili e nel nostro immaginario pensiamo di dover loro insegnare cosa devono fare ed essere nella vita, riteniamo forse in buona fede che questo sia in fondo il nostro compito di genitori, mentre niente è tanto lontano dalla realtà. Consideriamo che loro sono già degli essere umani completi; potrebbe costarci fatica accettare questa idea. I nostri figli come esseri umani completi, mentre abbiamo tanto spesso l’idea di doverli riempire di concetti e di regole, quasi come fossero piccole imperfezioni della natura. O esseri da modellare e plasmare.
Forgiarli come fossero oggetti informi, ancora incapaci di capire e di pensare. Come se noi fossimo coloro che sanno e che possono e devono decidere sulla vita degli altri.
I bambini hanno bisogno di conferme, di limiti e di no detti al momento giusto e nel modo giusto, è vero. Hanno bisogno di conoscere il mondo e i valori che ci muovono, il perché delle cose. Ma hanno altrettanto bisogno di sperimentare e comprendere il rispetto e l’attenzione per l’altro e per se stessi, hanno bisogno di imparare ad ascoltarsi, a saper leggere la vita nel volto di chi li circonda, di imparare la gioia e la fatica, la bellezza e l’impegno. La delusione no, sarà la vita stessa, purtroppo, inevitabilmente, ad insegnarla. Trasmettere ai nostri figli la delusione del non sentirsi ascoltati e accettati non è compito nostro. La percezione che la loro vita valga poco rispetto a chi è più grande di lui o rispetto a chi ha autorità, non è tema da mostrare a un bambino. L’attenzione e la cura per l’essere vivente, il rispetto per l’altro, anche naturalmente e certamente per chi è più grande e adulto, ma anche nei confronti del compagno di classe o del barbone che vive al margine della strada, nei confronti di chiunque, qualunque aspetto abbia, quello si, è compito nostro. E se non lo faremo, sarà la vita a chiederci poi, un giorno, il conto.