Talvolta il dolore paralizza. Succede quando non si riesce a dare un senso, a collocare il proprio e altrui dolore in una cornice di significato che può spiegare ciò che si prova e perché. La persona che lo sperimenta in questo caso può sentirsi incatenata e bloccata in un luogo e in uno spazio antichi, quello in cui il dolore è nato è cresciuto. È come un quadro, una scena ferma negli anni, uno spettacolo che non evolve, che non cambia. Lì la sofferenza è nata e si è costruita, li è rimasta e anche se la vita è andata avanti e la cornice nella quale la mente si incaglia non esiste più nella realtà conosciuta e condivisa con gli altri, non si riesce a lasciarla andare.
Così non si riesce più a vedere la realtà, le persone che ci circondano diventano una replica scialba dei nostri fantasmi interiori. Nel marito vediamo il padre che ci ha ferito, che cerchiamo e dal quale ci teniamo lontani, nella vicina di casa una estensione della madre da cui non ci sentiamo capiti e nei confronti della quale sperimentiamo proiettiamo le stesse intenzioni, negli amici la rappresentazione della nostra incapacità di comprenderli. Ragioniamo con i pensieri di allora, con un corpo che non esiste più se non per noi, quasi fosse un ectoplasma che solo noi possiamo percepire.
Ida è una donna ferita da una fuga di cui non sa darsi una spiegazione. La scomparsa senza motivo apparente di quel padre che accudiva e di cui si occupava agisce ancora nella sua vita.
Così quando torna nella casa dove ha vissuto, dopo anni di assenza, i fantasmi la assalgono, vivi e presenti come se il tempo si fosse fermato. Gli oggetti polverosi incombono, i ricordi si confondono dando vita alle tracce di un passato che non riesce a essere tale e la valigia con gli indumenti della vita che ha costruito negli anni lontano da lì rimane chiusa.
La ferita l’ha resa incapace di vedere, di osservare, di amare, di gioire, di comprendere. Ancorata al ricordo di quel padre che non c’è più ma che non riesce ad abbandonare, non si rende conto che col passare del tempo si è chiusa in un dolore che è diventato sbarra e muro alto e apparentemente invalicabile.
Per esempio, non riesce a comprendere il dolore degli altri. Perché questo è uno dei tranelli della sofferenza: quella di renderci egoisti, di accentrare su di noi il privilegio della sofferenza, di renderci sospettosi, chiusi alle emozioni e alla vita di chi ci circonda.
Questa volta però il viaggio è salvifico. Nei giorni che seguono, a poco a poco emergono ricordi, quelli rimossi e taciuti a se stessa: la dolcezza negli atti della madre, il dolore non visto dell’amica del cuore. A poco a poco chi la circonda la costringe ad ascoltare, a guardare in un’altra direzione. E così che emerge lo stupore e la capacità di vedere l’Altro, di capirlo. È questo che permette a Ida di aprire il suo cuore, è così che può permettersi di lasciare andare il passato, per entrare in un mondo dove il privilegio della sofferenza non ce l’ha nessuno, perché siamo tutti essere in cammino, in viaggio.
È una scatola di ferro rosso che segna il confine tra il prima e il dopo, che marchia il passaggio fra un dolore cupo e impronunciabile e un addio che guarisce e risana, fra una stasi che sembra infinita e un gesto che delimita l’inizio del cambiamento e segnala la guarigione.
Un’altra storia che racconta un’assenza che costruisce e un viaggio che libera, una storia che narra di un dolore dal quale ci si risveglia e dal quale si può imparare.